Pur esperti non ascoltarono i piloti arabi

Marzo 2016 – La notizia della scoperta rimbalza come una pallina impazzita nei siti di tutto il mondo. Quotidiani online mediorientali, canadesi, sudamericani in poche righe riassumono il ritrovamento di questo relitto navale: l’Esmeralda. Nau appartenuta alla flotta del portoghese Vasco da Gama.

Non era la nave del grande ammiraglio, ma una delle dieci che aveva lasciato in India, ma la risonanza della scoperta è notevole anche se il relitto non è carico di ori e preziosi tanto da far girare la testa.
Perché? Perchè è storia, è una storia marinara e marittima, di conquista e scoperta, di gente che con pochissime informazioni andava alla ricerca del sentito dire, che sperimentava strumenti, idee, vele, navi, rotte, mezzi, sistemi di navigazione senza magari averli neppure provati prima.

Concetti che non vengono mai spiegati ma accettati come dogmi, insiti nella testa di ciascuno di noi, che solo leggendo la data dell’avventura si chiede come abbiano fatto con legni marci e bucherellati, senza strumenti adeguati, intrisi di sconfinata dedizione al proprio re e in Dio, senza capire veramente l’importanza della loro scoperta e le conseguenze che se ne sarebbero avute nei secoli a venire ad arrivare dove sono arrivati.

Spedizioni che solo l’intuizione commerciale del protettore o sponsor di turno spingeva oltre ogni limite talvolta sono per aggiungere denaro a denaro o, come anche questo, non di certo unico, per andare a salvare i cristiani dalle barbarie islamiche. C’era anche questo sfondo religioso nella spedizione di Vasco da Gama, combattere gli islamici per riprendersi Gerusalemme. Era un po’ l’ossessione del tempo o forse semplicemente la scusa per avere dalla propria parte Papi e cristianità.

Quindi mettere un punto fermo nella storia delle scoperte è sempre importante anche se il relitto – come in questo caso – è solo ricco di verità storiche che fanno risaltare lotte intestine, ingordigia, fazioni, miserie, presunzioni, arroganza.

Roba da non credere, ma fu proprio quest’ultimo sentimento a mandare a fondo l’Esmeralda.

I marinai portoghesi erano abili, esperti, per raggiungere Capo di Buona Speranza, avevano usato sapientemente il vento, disconoscendosi dalle rotte usuali che sfiorano la costa dell’Africa, per allargare e dirigere verso le ignote coste del Sud America per poi con un lungo bordo raggiungere la punta estrema del continente africano. Evitavano così le bonacce al centro dell’Atlantico, disprezzando così la teoria di Colombo che invece vi diresse.

Ma quando una parte della flotta ferma sulle coste dell’Oman venne avvertita che il cambio del vento dovuto al monsone (da sud a nord) che stava ruotando avrebbe esposto le navi ai marosi e alle raffiche costoro credettero nella forza delle loro pesanti ancore di ferro. Non sapevano cosa fosse il monsone? Mai lo avevano sperimentato? Forse.

L’errore fu a non dar retta ai piloti arabi che quel mare lo conoscevano benissimo e sapevano cosa comportasse il cambio di stagione. E finirono a bagno, insabbiati, naufraghi davanti ad una spiaggia. Cercarono di nascondere gli errori, fu impossibile perché qualcuno lasciò una lunga relazione che ancora oggi si può leggere, ingiallita, nel maggiore museo navale del Portogallo.

Huston abbiamo un problema! Avrebbero detto gli astronauti alla base texana. Loro lo gridarono al vento, si accapigliarono, furono probabilmente derisi dagli indigeni locali e levarono le ancore.
Quel brandello di storia, affascinante, sconosciuta a più, oggi viene a galla perché qualcuno in anni di ricerche e studi ha potuto scovare in un tratto di mare, piccolo e remoto, qualche pezzo di ferro e alcune monete.

1503. Come andò
Febbraio 1503. Vasco da Gama è al secondo viaggio. Aveva raggiunto Cochin, in India, fatto un’alleanza con il governatore locale, stabilito una base portoghese armata. Il 20 di quel mese decide di dirigere verso casa, lascia sul posto a difendere gli interessi del Portogallo dieci delle venti navi al comando di Vicente Sodrè. Gli ordini sono chiari: difendere l’avamposto, catturare navi arabe sulla rotta tra il Mar Rosso e la regione di Kerala, fare bottino.
Sodrè ignora gli ordini, poco dopo passa alla pirateria, depredando, uccidendo e tenendo i preziosi bottini per se e per il fratello. Gli altri comandanti non so d’accordo, le ciurme men che meno, scoppia il dissenso generale.
Aprile 1503. La squadra raggiunge Khriya Muriya, arcipelago di 5 isole a 25 miglia delle coste dell’Oman. Devono dar fondo per alcune riparazioni, rifare gli scafi, riposare e trovare vettovaglie. Danno fondo nelle acque dell’isola oggi conosciuta come Al-Hallaniyah.

Maggio 1503. I pescatori locali avvisano i Portoghesi che il loro ancoraggio è pericoloso: il vento sta girando: è in arrivo il monsone settentrionale. Meglio spostare la flotta sottovento. Le navi più piccole dirigono verso il nuovo ancoraggio, protetto. Sodrè e il fratello a bordo della São Pedro rimangono convinti che le pesanti ancore di ferro faranno presa e nulla di catastrofico potrà accadere.
Il vento sale di intensità, investe le navi, le onde si alzano, l’ancora dell’Esmeralda molla e la nave finisce sugli scogli. Sbriciolandosi. I pescatori avevano ragione, ma oramai è tardi.
Nel Livro das Armadas (datato 1568) si trova un’illustrazione del momento del naufragio, abbastanza esaustiva. L’equipaggio della São Pedro si salva raggiungendo la terra, tutti sull’Esmeralda, compreso Sodrè periscono nelle onde.
Al comando di Pêro de Ataìde la squadra riparte e dirige verso l’India dove incontra Francisco D’Albuquerque che riceve 17 pezzi d’artiglieria salvati dal naufragio. Pêro mal ridotto in salute mette vela verso Lisbona ma nell’odierno Mozambico fa naufragio. Prima di morire redige una lettera di ben cinque pagine diretta a Dom Manuel, il re (Emanuele I), per spiegare quanto accadde all’Esmeralda sia per lasciare traccia del luogo dove è avvenuto il naufragio.
L’originale della lettera è conservato nell’Arquivo Nacional da Torre do Tombo a Lisbona.
Oltre a questa testimonianza vi è un altro testo scritto datato 10 settembre 1508 a firma del primo vicerè dell’India Dom Francisco de Almeida che afferma come i nemici dei Portoghesi siano andati sul luogo del naufragio ed abbiano recuperato 50 o 60 bercos, due bombarde, un falconetto. Ora – aggiunge- in mano di Malik Ayaz. Nemico giurato.

500 anni dopo
Nessuno, alla notizia del ritrovamento, avrebbe mai pensato che i resti giacessero tra i due nove metri di profondità. A pochi metri dalla battigia rocciosa dell’isola. Oramai siamo abituati a grandi profondità, a scafandri ed altri costosissimi ammennicoli. In questo caso solo pinne e maschera. I ricercatori della britannica Blue Water sapevano però dove andare. Quasi a colpo sicuro. Conoscevano il luogo – l’isola di Khuriya Muriya – sapevano che all’epoca era disabitata, che aveva una baia protetta dai alcuni tipi di venti, che la battigia era fatta in modo che una caracca potesse essere carena. E avevano un documento scritto con un disegno. Come si sa anche in poche decine di centimetri alle volte cercare qualcosa sul fondo del mare è un’impresa impossibile. Per cui anche in questo caso vi erano delle difficoltà.
Con un accordo preventivo con il Governo dell’Oman, due specialisti vanno in avanscoperta per due volte nel 1998. Devono solo controllare il fondale dove si presume vi siano i resti. La profondità dell’acqua è bassa, le mareggiate violente, sono passati 500 anni. Eppure individuano qualche frammento. Ci lavorano con l’uso di un cerca-metalli, raccolgono alcuni “proiettili” di pietra e di piombo. Poi scoprono palle di cannone in pietra con incisioni e frammenti ferrosi. Sufficiente, ritorneremo, pensano. Invece no, il luogo è talmente isolato e privo di ogni cosa che fa fallire anche l’idea di poter stabilire un campo base operativo.
Si arriva all’aprile 2013. Il Ministero della Cultura (MHC) si dice d’accordo nel proseguire la ricerca e gli eventuali scavi. Benchè l’Oman non abbia firmato la Convenzione Unesco sui beni sottomarini, le autorità si attengono a quanto è stato sottoscritto dalla maggioranza degli Stati nell’usare un alto standard di protezione e di condurre l’operazione in modo scientifico e archeologico.
Un mese dopo un’ampia area della baia di Ghubbar ar Rahib è mappata in alta risoluzione. Da una parte l’isolamento ha giovato al sito lasciandolo indisturbato per secoli.
Passa un altro anno e la squadra è sul posto con una potente sorbona e altra attrezzatura adeguata. Bisogna aspirare dal fondo i detriti e la sabbia, è necessario impostare le aree di scavo in cui si deve pulire in modo sistematico. L’operazione dura 22 giorni, vengono raccolti 1911 pezzi di vario tipo.
La certezza che questo fosse il punto del naufragio dell’Esmeralda si fa concreta.
La squadra torna e opera nelle profonde crepe del fondale. Se c’è materiale il mare nel suo costante movimento può averlo trascinato lì dentro. E’ una lavoro lento e faticoso, bisogna rimuovere pietre e rocce talvolta molto pesanti, analizzare il terreno, controllare ogni piccolo oggetto che si trova. Traccie vere e proprie non ne esistono, qualunque parte dello scafo è sparita, le sovrastrutture in metallo sono state prelevate dagli stessi marinai che l’hanno spogliata delle munizioni, la modesta profondità non ha permesso che i resti venissero ricoperti.
Eppure pian piano la nave di Sodré, la Esmeralda, si lascia scoprire. I ricercatori individuano ceramiche, monete in argento e oro portoghesi, un numero incredibile di proiettili anche in pietra (che fanno pensare che fossero pronti per il combattimento), una campana con l’iscrizione 478 dove forse la prima cifra si è persa, un disco di metallo di cui non si conosce l’uso ma con il sigillo portoghese e tanto altro.
Secondo due stimati ricercatori internazionali sono presenti sull’interno globo approssimativamente 80 relitti che possono essere datati all’interno del periodo di espansione marittima iberica del XVI° secolo. Solo una manciata di questa è stata scavata. Aver potuto mettere mano sui resti di una di queste navi che percorreva la Carreira da India è stato un bel colpo di fortuna. Il materiale archeologico raccolto farà parte di una nuova sezione del Museo Nazionale dell’Oman.

Testo pubblicato dal mensile SUB | a cura di E. Cappelletti @
Credito fotografico Blue Water Recoveries, UK | Ministero della Cultura (MHC), OMAN